Sanzioni degli Enti
a cura di Alice Saporiti
Quali sanzioni possono essere comminate all’ente che violi la normativa del d. lgs. 231/01?
Abbiamo già analizzato qui, i presupposti per la responsabilità dell’ente. E’ il momento di analizzare le sanzioni che possono essere comminate all’ente, sia di natura interdittiva, che pecuniaria, che di confisca.
I Tipi di Sanzioni
L’ente, responsabile per un reato commesso da un soggetto appartenente alla sua struttura organizzativa, è condannato da un sistema sanzionatorio che prevede sanzioni amministrative come la sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza di condanna.
Lo scopo delle sanzioni amministrative è quello di colpire direttamente o indirettamente il profitto dell’ente, disincentivando la commissione di reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente, e di incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa in modo da favorire attività risarcitorie e riparatorie.
1)La sanzione pecuniaria
L’art. 10 D.Lgs. 231/2001 stabilisce che per l’illecito amministrativo dipendente da reato si applica sempre la sanzione pecuniaria. La sanzione viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento né superiore a mille. L’importo di una quota va da un minimo di euro 258,23 ad un massimo di euro 1.549,37.
Non è ammesso il pagamento in forma ridotta
La sua determinazione avviene secondo un meccanismo che si articola in due fasi in cui il giudice:
- fissa l’ammontare delle quote;
- determina il valore monetario della singola quota.
La somma finale è data dalla moltiplicazione tra l’importo della singola quota e il numero complessivo di quote che quantificano l’illecito amministrativo. La sanzione pecuniaria potrà quindi avere un ammontare che va da un minimo di euro 25.800 ad un massimo di euro 1.549.000.
Ai sensi dell’art. 12 del D. Lgs. n. 231/2001 la sanzione pecuniaria è ridotta se il danno cagionato è di particolare tenuità o se l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso.
2) Le sanzioni interdittive
L’interdizione è quell’istituto giuridico che comporta una limitazione temporanea dell’esercizio di una facoltà o di un diritto, in tutto o in parte.
Le sanzioni interdittive hanno una durata limitata (non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni) e possono essere applicate in via definitiva solo secondo quanto stabilito dall’art. 16.
Le sanzioni sono individuate tassativamente nell’art. 9, comma 2, del decreto e si applicano unitamente alla sanzione pecuniaria.
Quali sanzioni interdittive possono essere applicate?
Le sanzioni interdittive applicabili all’ente sono:
– l’interdizione, anche temporanea, dall’esercizio dell’attività;
– la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
– il divieto, anche temporaneo, di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
– l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
– il divieto, anche temporaneo, di pubblicizzare beni o servizi.
Si tratta, quindi, di sanzioni particolarmente gravose che, proprio per questo, si applicano solo nei casi più gravi.
Condizioni di applicabilità
Ai sensi dell’art. 13 del decreto, le sanzioni interdittive si applicano solo in presenza di una delle seguenti condizioni:
- L’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e quando la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;
- in caso di reiterazione degli illeciti.
I criteri di scelta
I criteri di scelta delle sanzioni interdittive sono disciplinati dall’art. 14 Dlgs. 231/2001 e coincidono con i principi di proporzionalità, idoneità e gradualità. Nello specifico, il giudice determina il tipo e la durata della sanzione tenendo conto dell’idoneità delle singole sanzioni a prevenire illeciti del tipo di quello commesso.
Casi di non applicabilità della sanzione
Le sanzioni interdittive non si applicano nei casi previsti dall’art. 12 co. 1 ossia se:
- l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo;
- il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità.
Ferma l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni (art. 17), l’ente ha:
- ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
- eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
- messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.
Applicazione della sanzione interdittiva in via definitiva
La sanzione può essere irrogata in via definitiva se l’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità ed è già stato condannato, almeno tre volte negli ultimi sette anni, alla interdizione temporanea dall’esercizio dell’attività (art. 16)
Non solo, il giudice può applicare all’ente, in via definitiva, la sanzione del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione ovvero del divieto di pubblicizzare beni o servizi quando è già stato condannato alla stessa sanzione almeno tre volte negli ultimi sette anni.
L’interdizione definitiva è, invece, sempre disposta se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati.
Un’alternativa alla sanzione interdittiva: il commissario giudiziale
Il legislatore ha elaborato all’art. 15 Dlgs. 231/2001 un’alternativa alla sanzione interdittiva, rappresentata dal commissario giudiziale; questa soluzione deve essere adottata dal giudice nei confronti dell’ente, per un periodo pari alla durata della sanzione interdittiva che determina l’interruzione dell’attività dello stesso, se sussiste almeno una delle seguenti condizioni:
- L’ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione comporterebbe un grave pregiudizio alla collettività;
- L’interruzione dell’attività dell’ente può provocare, a causa delle dimensioni e delle condizioni economiche del territorio, ripercussioni sull’occupazione.
Una volta accertata la sussistenza di uno dei due presupposti, il giudice con sentenza dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente da parte di un commissario, indicandone i compiti e i poteri con particolare riferimento alla specifica area in cui è stato commesso l’illecito; il commissario cura quindi l’azione di modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi e non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice.
Nonostante la tutela della collettività, il commissario giudiziale è pur sempre un’alternativa alla sanzione interdittiva ed è per questo che deve possedere un carattere sanzionatorio; ciò avviene mediante la confisca del profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività.
Infine è bene precisare come la soluzione del commissario giudiziale non possa essere adottata in caso di applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva.
3) La pubblicazione della sentenza di condanna
Nei casi in cui viene applicata una sanzione interdittiva, il giudice può altresì ordinare la pubblicazione della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 36 c.p. nonché mediante affissione nel comune ove l’ente ha la sede principale (art. 18).
La pubblicazione viene eseguita a spese dell’ente.
4) La confisca
L’art. 19 Dlgs. 231/2001 stabilisce nei confronti dell’ente è sempre disposta, con sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato.
Quando non è possibile eseguire la confisca secondo le condizioni citate, essa può avere ad oggetto denaro, beni di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato.
La confisca è una sanzione amministrativa che si distingue dalle altre in quanto non ha limiti di valore (sui generis); essa inoltre viene applicata anche in altre situazioni: la prosecuzione dell’attività dell’ente sotto la gestione del commissario giudiziale, riparazione delle conseguenze del reato da parte dell’ente, irrogazione in seguito all’inosservanza delle sanzioni interdittive (art. 23 Dlgs. 231/2001), in presenza di un modello organizzativo tale da prevenire la commissione di reati da parte de vertici societari.
La confisca ex art. 240 c.p. e ex artt. 9 e 19 D.Lgs n. 231/2001
Con l’introduzione della responsabilità amministrativa degli enti, si è sentita l’esigenza di riformulare la misura della confisca a tale nuova forma di responsabilità; la confisca penale tradizionale ex art. 240 c.p. è apparsa, infatti, inapplicabile all’ente.
La confisca ex art. 19 si differenzia da quella disciplinata ex art. 240 c.p.; quest’ultima infatti è una misura di sicurezza patrimoniale che consiste nell’espropriazione delle cose che sono servite a commettere il reato o ne rappresentano il prezzo, il profitto o il prodotto.
Requisito fondamentale della confisca ex art. 240 c.p. è quindi la pericolosità oggettiva della cosa soggetta a sequestro, indipendentemente dalla condanna dell’ente.
Viceversa, si attribuisce alla confisca di cui all’art. 9 e 19 d.lgs 231/2001 una natura afflittiva e sanzionatoria: il legislatore ha infatti, ricondotto la confisca tra le sanzioni amministrative, insieme alla sanzione pecuniaria, alla sanzione interdittiva e alla pubblicazione della sentenza.
La sanzione della confisca è altresì applicabile sin dalla fase cautelare, essendo espressamente richiamata ex art. 53 d.lgs 231/2001 rubricato “sequestro preventivo”.
La nozione di prezzo e profitto confiscabile
In questa sede ci interessa però chiarire la nozione di prezzo e soprattutto di profitto confiscabile sulla base delle pronunce giurisprudenziali.
È evidente l’importanza della determinazione di cosa debba intendersi per “profitto del reato” per l’applicazione della confisca, atteso che in nessuna disposizione legislativa è possibile rinvenire una sua definizione.
Per quanto concerne il prezzo, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si limita a distinguerlo dal profitto e a definirlo come il compenso dato o promesso ad un soggetto per l’esecuzione dell’illecito.
La nozione di profitto confiscabile, invece, è stata al centro di controversie giurisprudenziali; va precisato che il profitto deve essere considerato come oggetto della sanzione e non deve essere confuso con l’interesse o il vantaggio.
La giurisprudenza è orientata ad attribuire al termine un significato più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico (secondo cui il profitto corrisponde all’utile netto, ossia ai ricavi meno i costi) ed a ritenere che la nozione di profitto del reato possa essere diversa a seconda del tipo di reato di cui si discute.
Va individuato in quel vantaggio economico che costituisca un beneficio aggiunto di tipo patrimoniale, che abbia una diretta derivazione causale dalla commissione del reato (c.d. “relazione di pertinenzialità”), senza però estendersi fino a ricomprendere qualsiasi vantaggio anche immateriale.
Non costituisce profitto del reato un qualsivoglia vantaggio che, pur derivante dal reato, tuttavia sia futuro, sperato, eventuale, solo possibile, immateriale o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali.
Come quantificare il profitto
Per quantificare ed individuare il profitto illecito da sottoporre ad ablazione, ci si riferisce ai principi enunciati dalla Cassazione nella sentenza del 27 marzo 2008:
Il profitto deve avere natura patrimoniale, risultare attuale e concreto, essere causalmente e direttamente riconducibile al reato-presupposto. In sostanza il profitto del reato è quel complesso di vantaggi economici tratti dall’illecito, e a questo strettamente pertinenti.
“In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone” (Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza n. 26654 del 27 marzo 2008).
Ciò significa che sarà oggetto di confisca solo il vantaggio economico che deriva direttamente dal reato (c.d. profitto confiscabile), con l’esclusione del corrispettivo derivante da una prestazione lecita eseguita in favore della controparte (c.d. profitto non confiscabile).
Ancora, più recentemente si è espressa la Corte di Cassazione – Sezione Seconda Penale, con Sentenza 7 giugno 2018, n. 25980: “il profitto del reato oggetto della confisca si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, e, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può ricomprendere l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione delle prestazioni contrattuali da parte dell’ente.”