IL CASO WELBY E IL FINE VITA

IL CASO WELBY E IL FINE VITA

07 Set 2020

di Giorgia Aimeri

 

L’attaccamento alla vita

Capita spesso di dire quando vediamo un film o sentiamo la storia di altri: “Se fossi in quella situazione preferirei morire”, ma attenzione alle parole, perché se dovessero assumere un valore legale anche il loro peso sarebbe differente. 

Il Dottor Antonio Foresio raccontava – durante un convegno sul Fine Vita – di quando un giorno, di fronte a un paziente con la gamba amputata per via di una cancrena diabetica che non smetteva di lamentarsi  dicendo che voleva morire, disse ironicamente al paziente che chiedeva spiegazioni di una serie di siringhe che stava per utilizzare: “Non avevi detto che volevi morire?”.  Il paziente allora gridò: “No!” , mostrando solo allora il suo attaccamento alla vita. 

 

Legiferare sul Fine Vita

Quando si parla di Eutanasia, di accanimento terapeutico e altri argomenti delicati riguardanti il Fine Vita, quasi tutti sembrerebbero avere una posizione chiara. Ma difficile riflettere prendendo in considerazione  tutte le variabili. Complesso a dismisura legiferare su questi temi, perché quando un pensiero si fa legge diviene attivo, reale, diviene per l’appunto legge.  

Per tale ragione gli aspetti da tenere in considerazione sono delicati e molteplici: dove si colloca la volontà della persona che sceglie di voler morire? Per quale ragione desidera compiere questa scelta? Tale volontà è stata indotta da situazioni economiche, da pressioni familiari? Il medico – quando sceglie la terapia – agisce per scienza e coscienza, ha un bagaglio di informazioni che lo portano a compiere determinate decisioni, ma siamo sicuri che il paziente abbia la stessa consapevolezza? 

L’intento di questo articolo, qui dichiarato per non generare fraintendimenti, è quello di aprire una riflessione, partendo da chi ha ragionato ed è stato costretto a ragionare su questi argomenti, perché sperimentati sulla sua pelle, senza giungere a una conclusione netta, senza ritenere di avere una verità a riguardo.  

 

Il Caso Welby

“Abbiamo fatto della malattia una necessità di parlare e studiare, un modo di fare politica”, queste le parole di Mina Welby parlando del caso di suo marito Pier Giorgio, tra i primi a chiedere e lottare per il rifiuto dell’accanimento terapeutico e per il diritto all’eutanasia, che chiedeva fosse praticato in primis su se stesso.  

Pier Giorgio Welby, affetto da distrofia muscolare in forma progressiva, si ritrovò a fin di vita a non poter più camminare, né parlare, costretto immobile su un letto, ma a mente lucida.  Attaccato a un respiratore automatico, dopo aver subito una tracheotomia, chiese più volte che gli fosse “staccata la spina”.  Le sue richieste non hanno avuto alcun esito in quanto il Comitato Bioetico riteneva  che la nutrizione via sonda o direttamente nello stomaco non potessero essere rifiutate dal malato perché non erano terapie, ma cure. 

Welby , il 23 novembre del 2002 scriveva queste parole con una tastiera virtuale quasi incapace di muoversi: “A volte non siamo noi a decidere di quale problemi occuparci, ci sono nodi gordiani che troviamo sulla nostra strada e non possiamo evitare di tentare di scioglierli. Credo che – ai nostri giorni – uno di questi nodi ineludibili sia l’accanimento terapeutico ed il diritto dei malati ad una terapia medica che non ignori la persona e che non dimentichi di avere a che fare con un uomo il cui volere deve essere rispettato. Le tecniche di rianimazione e gli strumenti che simulano o supportano alcune funzioni vitali hanno creato in non pochi casi una dicotomia insanabile tra ciò che è vita e quella morte sospesa che è il risultato di molti accanimenti” , di fatto chiedeva la legalizzazione del testamento biologico per restituire alla vita e alla morte la sua dignità.  Welby arrivò a scrivere al Presidente della Repubblica, la cui risposta fu che lui non poteva fare le leggi, ma che voleva che fosse discusso.  Nello stesso periodo – tra il 2001 e il 2002 – in Belgio e in Olanda l’eutanasia diventava legale.  

 

Il Dottor Mario Riccio nel Caso Welby

Pier Giorgio così chiede a Mina di staccargli la spina, ma la moglie ha paura che vada in coma e che ancora una volta non riesca a trovare il sollievo della morte, serve un medico. Nella storia a questo punto compare il Dottor Mario Riccio che, venuto a conoscenza della situazione, decide di sposare la causa di Welby e aiutarlo a morire. Il Dottore – presa visione della cartella clinica del paziente – si rivolge al Giudice Civile per chiedere l’assenso ad agire, assenso che gli viene negato in quanto non è prevista legge a riguardo, ma il medico – forte delle sue convinzioni – decide comunque di procedere.  Il Dottor Mario Riccio ha quindi sedato Pier Giorgio dopo averglielo chiesto due volte, e Pier Giorgio ha potuto spirare senza sentire il soffocamento. 

Questa pratica, allora vietata ed oggi possibile, non si definisce come eutanasia, in Italia ancora illegale, ma come Sedazione Palliativa. Infatti attualmente la legge non permette l’eutanasia, ma di sospendere una terapia. 

Decidiamo di lasciarvi con una domanda, provocatoria o meno, del Dottor Riccio:  Tra interrompere la nutrizione o la ventilazione o una terapia salvavita che porterà il paziente a morte in giro di qualche giorno o pochi minuti, come il caso di Welby, tra questo e l’atto eutanasico e il suicidio assistito, che differenza c’è? Certo giuridicamente c’è differenza. Ma dal punto di vista etico e deontologico, c’è differenza?”  

 

formula terza età avvocato milano studio legale poretti passalacqua