La deposizione della persona offesa da reato
10 Dic 2020
La persona offesa dal reato è titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale violata a seguito della commissione di un fatto di reato.
Questo soggetto non va confuso con il danneggiato dal reato, identificato come chi subisce il danno derivante dal reato.
Alla persona offesa da reato sono riconosciute facoltà e diritti, quali ad esempio partecipare agli accertamenti tecnici non ripetibili (art. 360 c.p.p); chiedere al p.m di attivare l’indicente probatorio (art. 394 c.p.p); presentare richiesta motivata al p.m. al fine di sollecitare l’impugnazione a ogni effetto penale (art. 594 c.p.p).
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La deposizione della offesa è prova di colpevolezza?
La giurisprudenza si è espressa più volte sul ruolo e la figura della persona offesa dal reato.
Secondo la Corte di Cassazione, con sentenza n. 35559/2017, “la testimonianza della persona offesa, soprattutto quando portatrice di un personale interesse all’accertamento del fatto, deve essere certamente soggetta ad un più penetrante e rigoroso controllo circa la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca nel racconto (Sez. u, 41461/2012), ma ciò non legittima un aprioristico giudizio di inaffidabilità della testimonianza stessa e non consente di collocarla, sulla stesso piano delle dichiarazioni proveniente dai soggetti indicati dall’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p.”
Anzi, secondo la Corte, “la deposizione della persona offesa può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa”, questo perché in tale contesto processuale il più delle volte l’accertamento dei fatti dipende necessariamente dal contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi.
Anche la giurisprudenza di merito si è espressa sul punto facendo proprio gli orientamenti di legittimità: con Sentenza emessa in data 22 giugno 2015, il Tribunale di Roma dichiarava l’imputato colpevole del delitto di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione aggravato da violenza e minaccia (artt. 3 e 4 legge n.75/1958) commesso in Roma dal febbraio 2011 all’8 novembre 2011.
Il Tribunale lo condannava alla pena di quattro anni di reclusione ed euro 600,00 di multa, oltre alle pene accessorie dell’interdizione da ogni ufficio inerente la tutela e la curatela per la durata della pena.
Il giudizio di responsabilità penale del Tribunale si fondava sulla denuncia sporta dalla persona offesa, due verbali di s.i.t rese dalla medesima, un verbale di s.i.t. di altro soggetto, atti tutti acquisiti sull’accordo delle parti, nonché sulle ulteriori prove dichiarative assunte in dibattimento.
Contro la sentenza proponeva appello l’imputato, il quale chiedeva alla Corte, in riforma della sentenza, di assolverlo dall’imputazione, deducendo che la tesi accusatoria non fosse stata sottoposta a controllo approfondito; che vi erano discrasie tra quanto riferito dalla persona offesa e dalla teste sentita a s.i.t.; che la denuncia era stata sporta in concomitanza con l’inizio di una nuova relazione, e quindi la persona offesa, gelosa, avrebbe denunciato l’uomo per mera ritorsione.
La Corte d’Appello rigettava l’impugnazione ritenendo che la testimonianza della persona offesa fosse lineare e coerente e non contradetta dalle altre prove dichiarative.
Evidenziava la Corte che già la sola deposizione della persona offesa può fondare il convincimento del giudice, previo il controllo della sua credibilità da effettuare con ogni necessaria cautela, ovvero sotto un profilo oggettivo e soggettivo (Cass. Pen. Sez. VI 34.2.1997, Or., in Cass Pen. N. 1364/1998, Cass. Pen Sez. 1 11.1.2000).
La Corte d’Appello quindi concludeva affermando che ai fini dell’accertamento della responsabilità penale le sole dichiarazioni della persona offesa hanno piena efficacia probatoria, qualora ne venga accertata la coerenza logica, anche quando manchino altri elementi di prova e di riscontro, non applicandosi il comma 3 dell’art. 192 c.p.p., relativo solo alle dichiarazioni di terzi coimputati, per i quali è richiesto un riscontro esterno di attendibilità.