Reinserimento nel mondo del Lavoro per i Condannati

Reinserimento nel mondo del Lavoro per i Condannati

22 Lug 2020

ATTENZIONE – prima di contattarci, ci teniamo a ricordarti che il nostro studio fornisce ASSISTENZA LEGALE, non si occupa di trovare lavoro a detenuti ed ex detenuti. Purtroppo non abbiamo le competenze per poterci occupare del collocamento, ma possiamo fornire assistenza giuridica.

«Quando domandiamo a detenuti e ex detenuti quale sia la maggiore difficoltà nel loro percorso di reinserimento nella società, la risposta indica generalmente il lavoro: è questo infatti il passaggio cruciale in grado di dar corpo alle finalità rieducative e risocializzanti della pena esigite dalla Costituzione, attraverso percorsi di vita fuori dagli spazi e dalle pratiche illegali»

Don Virginio Colmegna, intervento introduttivo al seminario AgeSol Penalità e lavoro. Prospettive e impegni per l’Italia di oggi (Milano, 2 aprile 2004). 

L’inserimento lavorativo del detenuto 

La pena, afferma chiaramente la Costituzione Italiana, “deve tendere alla rieducazione del condannato”, il singolo detenuto ha dunque diritto al recupero e alla reintegrazione in società.  

L’art. 15 dell’ordinamento penitenziario, legge 26 luglio 1975 n. 354, individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo, capace di assolvere a tre diverse funzioni contemporaneamente: 

  • 1. sottrae i detenuti alle conseguenze dell’ozio ed alla possibilità di socializzare in modo deviante con altri detenuti, 
  • 2. favorisce l’apprendimento di nuove competenze da spendersi dopo l’espiazione della condanna per il reinserimento; 
  • 3. offre la possibilità di ricavare un guadagno, col quale soddisfare le proprie necessità e sussidiare la famiglia. 

 

Il lavoro dei condannati dal Regio Decreto alla Costituzione 

Prima dell’entrata in vigore della Costituzione italiana, il lavoro per i detenuti, nell’ambito del regime penitenziario, veniva considerato in funzione strettamente punitiva. Infatti, il Regio Decreto 18/06/1931 n. 787 configurava il lavoro come una parte integrante della pena. I condannati, considerati privi di qualsiasi capacità di agire, avevano l’obbligo di lavorare nelle varie attività produttive organizzate negli Istituti carcerari: non vi era alcuna proporzione tra la quantità e qualità del lavoro prestato rispetto alla retribuzione, non avevano diritto a nessuna tutela assicurativa e previdenziale.  

Nei principi dettati dalla Carta Costituzionale, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, si concretizza una evoluzione del concetto di sanzione penale: la pena detentiva, oltre a rappresentare un provvedimento repressivo, afflittivo, proporzionato alla gravità del reato inflitto al soggetto dotato di capacità di intendere e di volere, deve tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma). Il lavoro è inteso come strumento rieducativo e non punitivo, e al lavoratore sono quindi assicurate diritti e tutele minime (per cui non si tratta di “lavori forzati”).  

Ciononostante, nella prassi, difficilmente ai detenuti è riconosciuta la possibilità di concretizzare il diritto al lavoro, a causa della scarsità di risorse, scarsità di posti di lavoro, e un vuoto comunicativo fra Ministero della Giustizia, le singole carceri, gli Enti Locali e le aziende private. Così, il detenuto che riesce a reinserirsi validamente, normalmente è quello che possiede risorse sociali, familiari ed economiche già dall’origine. 

 

Le occasioni di formazione per il condannato 

Acquisire una professione in carcere o essere reinseriti nel mondo del lavoro è complesso. Nei rari casi in cui ciò avviene, inoltre, non si comprende la funzione che dovrebbe avere il lavoro per il condannato, si dimentica l’idea rieducativa che la pena dovrebbe sottendere, il più delle volte il lavoro – infatti – assolve una funzione utilitaristica, dove il lavoro serve unicamente a velocizzare l’uscita dalla detenzione attraverso le misure alternative.   

Ma nella maggioranza dei casi la parola detenuto rima con disoccupato, problema che si fa ancora più ingombrante a fine pena quando il lavoro, oltre a garantire un sostentamento, aiuterebbe l’ormai ex detenuto a creare nuove relazioni sociali, permettendogli una crescita e una gratificazione personale che è stato testato avere una forza deterrente alla commissione di nuovi reati.  

 

Modelli virtuosi di reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti 

A fronte della mancanza di una guida “centrale”, governata dal Ministero della Giustizia, per cui i detenuti che lavorano o che usufruiscono di percorsi formativi costituiscono una quota assolutamente minoritaria della popolazione, sono sorti però sul territorio modelli virtuosi che hanno permesso l’esplicarsi di trattamenti rieducativi attraverso attività lavorative e corsi professionalizzanti . 

Progetti come il corso di orientamento all’imprenditorialità intrapreso dall’ordine dei commercialisti di Monza, colgono appieno la funzione rieducativa della pena. 

Il corso era stato fortemente voluto dal dott. Giuseppe Airò – allora Presidente della sezione Penale del tribunale di Monza – secondo il quale si trattava di Un modo concreto per combattere la recidiva. Del resto se non hanno un aggancio con la vita vera, sono portati a delinquere ancora”. E in questo caso la statistica fa da testimone. Il livello di recidiva di chi lavora scende ad un 19% circa. Quello di chi non lavora, invece, sale al 70%.

Altro esempio virtuoso è portato avanti dal carcere di Bollate, dove il lavoro comincia fin dentro l’Istituto, tra condannati che studiano, altri che si occupano del centralino del call center fino a chi sta dietro i fornelli. Ma non è finita qui, durante l’emergenza coronavirus, i detenuti del carcere di Bollate – insieme a quelli di Rebibbia e Salerno – hanno prodotto più di 800mila mascherine al giorno. 

 

Che fine hanno fatto i detenuti più famosi?  

Dal discorso che stiamo portando avanti fino a qui, la prima risposta che possiamo darvi è: innanzitutto dipende da quanti anni dovevano scontare e in secondo, ma altrettanto importante, luogo dipende dal carcere in cui sono reclusi. Vi ricordate di Alberto StasiCondannato per l’omicidio di Chiara Poggi, impiegato nel già citato Istituto di Bollate, ad oggi lavora come centralista nel call center di una nota compagnia telefonica. Allo stesso modo Massimo Bossetti – condannato per la morte di Yara Gambirasio – mette a posto macchine del caffè. Ma perché il carcere di Bollate funziona?

Il Carcere di Bollate, l’eccezione alla regola

Nel carcere di Bollate si svolgono attività di formazione, socializzazione e progetti avanzati di reinserimento lavorativo dei detenuti. Questa felice situazione, dove tutte le sezioni sono aperte e i detenuti possono uscire dalle celle durante il giorno, non rappresenta la regola quanto l’eccezione. Basti pensare che per poter entrare in questa struttura è necessario aderire un “patto trattamentale” in cui si accetta un codice di comportamento, oltre che un impegno a far parte di programmi formativi. I detenuti hanno qui modo di mettersi alla prova in un laboratorio di riparazione cellulari, un una produzione di manufatti artigianali in cuoio e in pelle, in due call center, in una cooperativa di servizi di facchinaggio e trasloco o in un servizio di sartoria gestito dalla cooperativa Alice e molto altro ancora. Sono presenti molti corsi di formazione professionale, erogati tramite finanziamenti regionali. Ogni anno nell’Istituto Penitenziario di Bollate vengono organizzati una quindicina di corsi, tra cui un corso che rilascia una certificazione relativa all’utilizzo di apparati di networking ed un Laboratorio Informatico gestito da BT.  

Se nel carcere di Bollate 1.288 carcerati 500 lavorano e il tasso di recidiva non supera il 18% nelle restanti 189 carceri italiane la situazione è molto diversa.  

 

Il Lavoro e la Recidiva

Ogni anno l’Italia – solo per il sistema penitenziario – versa circa 2.9miliardi di euro: ogni detenuto (dei 60.552 totali) costa al mese circa 4.000 euro (131 euro al giorno). Leggere questi numeri fa impressione, ma di fatto il condannato, nella maggior parte dei casi, dovrebbe nel tempo rimborsare le spese per il proprio mantenimento in carcere. Questo però avviene solo nel 2% dei casi: ogni anno circa 4.318 detenuti chiedono la cancellazione del debito…

…scopri di più>>> come si ottiene la remissione del debito

 Si comprende dunque quanto garantire un reinserimento lavorativo e sociale del detenuto sia fondamentale anche solo perché possa risanare il suo debito nei confronti dello Stato.  Ma solo il 3,9% degli attuali detenuti lavora per conto di ditte esterne o cooperative, nonostante lo Stato metta a disposizione sgravi fiscali per le aziende che assumono carcerati. Il 25% della totale popolazione carceraria invece lavora per l’amministrazione penitenziaria, cucinando, facendo lavori di manutenzione, pulizia, scopini o scrivani. Ed in questi casi, parte dello stipendio viene trattenuto dallo Stato per coprire il debito, così di fatto senza lasciare al detenuto alcuna provvista per il momento in cui varcherà le porte del carcere.

Questi dati implicano anche che più del 70% dei detenuti non stanno lavorando. 

Il paradosso di questa situazione è che se anche un detenuto volesse lavorare gratis non potrebbe, in quanto per legge il lavoro deve essere retribuito. 

 

Come avviene il reinserimento nel mondo del lavoro 

Premesso che non esistono prassi standardizzatedato che ogni percorso deve essere creato ad hoc per ogni persona, ci sono alcune azioni che possono e devono essere compiute perché il reinserimento possa avere inizio. Per prima cosa è necessario che il detenuto o ex-detenuto sia iscritto alle liste di collocamento. Secondo la Legge 56/87 tutti i detenuti hanno diritto di essere iscritti in carcere. È inoltre utile sapere che, una volta maturati due anni di anzianità di iscrizione, le aziende che assumeranno il seguente detenuto avranno accesso a sgravi fiscali, garantiti per i disoccupati di lunga durata.  

 Un altro buon punto di partenza può essere la progettazione di un percorso formativo (dentro o fuori dal carcere), oppure il completamento di un percorso scolastico, che potrà facilitare il ricollocamento.  

 

L’inserimento lavorativo “mirato” 

ASL e Comuni, secondo la Legge della Regione Lombardia n.1/1986 (art. 79),  hanno il compito di promuovere apposite risorse al fine di favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di cittadini svantaggiati.  Sul territorio, inoltre, sono presenti realtà locali che si occupano dei contatti tra azienda, Istituto Penitenziario e con il CSSA, al fine di supportare al meglio la persona nell’azienda di destinazione

 >>> Qui trovate i riferimenti agli enti che si occupano di detenuti e ex detenuti 

 

Strumenti che facilitano l’inserimento nel mondo del lavoro 

Questi strumenti, in quanto progettati per un inserimento graduale, permettono all’azienda e all’ex detenuto di cominciare a dimostrare sul campo le proprie abilità. 

 1) Il tirocinio formativo (stage di breve durata), permette all’azienda di formare la persona e rendersi conto delle effettive capacità. 

2) Il tirocinio lavorativo – da un minimo di un mese al un massimo di dodici – costituisce una tappa più avanzata del percorso di reinserimento dove il lavoratore percepisce un contributo economico a carico del Fondo Regionale e del Comune. 

3)Con la borsa lavoro, l’obbiettivo  e l’assunzione del dipendente, dopo un primo periodo di apprendimento, retribuito anch’esso a carico del Fondo Regionale e del Comune.  

 

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