Sovraffollamento carcerario: condizioni disumane dei detenuti
25 Ago 2023
Sovraffollamento carcerario: condizioni disumane e risarcimento del danno, il reclamo ex art. 35 ter l.OP
Nel 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della CEDU per aver sottoposto a trattamenti “disumani e degradanti” i detenuti del carcere di Busto Arsizio a causa del sovraffollamento.
La Corte ha invitato dunque l’Italia a conformarsi alla Convenzione riducendo il numero dei detenuti, migliorando le condizioni di detenzione e apprestando dei rimedi qualora queste condizioni non siano rispettate.
Tra questi rimedi il Legislatore ha introdotto l’art. 35 ter l.OP, ossia un reclamo rubricato “rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”. In base a tale norma, i detenuti o gli internati che hanno subito trattamenti disumani o degradanti, dovuti tra le altre cose al sovraffollamento penitenziario, possono chiedere uno sconto di pena pari ad 1 giorno ogni 10 trascorsi in violazione dei diritti dell’uomo, oppure, qualora la pena sia stata già completamente espiata, un ristoro di 8 € al giorno.
Nel 2016 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha avuto modo di ribadire con più precisione i criteri e gli indicatori per determinare quando si sia verificato effettivamente uno stato di reclusione in condizioni inumane e degradanti con la sentenza Mursic c. Croazia.
La Corte ha precisato che:
1) Qualora in una cella collettiva lo spazio personale scenda sotto i 3 mq la mancanza di spazio è talmente grave da essere considerata una “strong presumption” di violazione dell’art. 3 della Convenzione, in tali casi il Governo ha l’onere di confutare tale presunzione con fattori che siano cumulativamente compensativi di tale situazione;
2) Quando invece lo spazio si attesti tra i 3 e i 4 mq, è sussistente una violazione della Convenzione qualora tale situazione sia combinata ad altri aspetti di inadeguatezza della detenzione come la presenza di luce e aria nella cella, la ventilazione, la possibilità di utilizzare la toilette in privato e di fare attività all’aria aperta.
In anni recenti si è aperto un contrasto interpretativo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione circa le modalità di calcolo di tale spazio vitale “a disposizione” dei detenuti. A sopire tale contrasto è intervenuta la Corte di Cassazione a sezioni Unite con la sentenza del 24 settembre 2020 (dep. 19 febbraio 2021), n. 6551, in cui viene affermato che “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della CEDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”.